Nuovo logo UniCt, Giuseppe Liuzzo ad A1N: “L’ateneo di Catania non deve ridursi ad essere trend, ma deve diventare istituzione sul territorio”

Giuseppe Liuzzo sul nuovo logo Unict

Dallo storico sigillo con lo stemma aragonese a un nuovo logo UniCt, minimal, raffigurante “u liotru“, simbolo di catanesità che mal si combina però con il rigore e la sapienza cui un ateneo dovrebbe, per sua natura, rimandare. Il nuovo marchio dell’Università di Catania, presentato nei giorni scorsi, ha fatto e continua a far discutere tra consensi e dissensi. Antenna Uno Notizie ha voluto trattare l’argomento con Giuseppe Liuzzo, docente e coordinatore dei corsi triennali di graphic design dello IED di Milano.

“La grafica in sé non è complicata, ma fare il designer è complesso, soprattutto in questa società dove una volta eravamo tutti allenatori o ingegneri al bar, oggi invece abbiamo capito l’importanza che rappresenta il design, nella declinazione di comunicazione visiva, nel costruire scenari e un’appetibilità del brand. Nel caso dell’Università di Catania io ho lanciato una provocazione con un post – l’ambiente era Facebook – in cui esponevo una proposta di logo puramente fittizia. Si tende sempre a cercare il nuovo senza capire che, a volte, quando si cerca troppo la novità si finisce per diventare vecchi. Un ateneo universitario deve avere un suo posizionamento, soprattutto un ateneo antico come quello della città di Catania. È un ateneo che non deve ridursi ad essere trend, ma deve diventare istituzione sul territorio. Quando nei linguaggi si iniziano a citare anche altri brand per espandere i confini, come quelli delle squadre di calcio, il calcio è uno dei settori che il campo gli sta stretto perché vuole conquistare abbigliamento, moda, life style, etc. Lo devono fare anche le università col loro percepito storico, andando a pescare nella tradizione. Mi dispiace dirlo ma l’operazione che io ho visto, con tutto il rispetto per chi ha progettato questo nuovo marchio, delinea una carenza di cultura da parte della committenza. Un paradosso perché stiamo parlando di un’istituzione, l’università, ovvero di dialogo, di andare a esplorare nuove strade e segni, soprattutto di voler sradicare la tradizione in favore di un brand commerciale.

Quando si parla di progettazione, ovvero di design, si va a fare un abito da sposa e non a comprare un maglietta al grande magazzino. Si fa una ricerca culturale un po’ più profonda. Un interrogativo per sprovincializzare l’ateneo catanese, che – ricordiamo – attira gente non solo dalla città di Catania, ma anche dall’area metropolitana estesa etnea e dall’estero. Il processo è quello di cercare un linguaggio, non di proporre un logo così. Bisogna capire gli elementi che ci sono, tramutando la storia in simboli nuovi e visivi che possono agevolare. In sintesi ‘design’ vuol dire passare da una situazione esistente a una situazione migliorata. Questo è il punto di partenza. Qual è la nostra previsione di miglioramento? Non passa dal cambiare linguaggio all’ateneo per farlo diventare più tribale o più appetibile in termini moderni, bisogna eliminare ciò che è ovvio e lasciare solo ciò che è significativo. Questa è una delle leggi della semplicità di John Maeda. Tutto ciò che è stato fatto non è significativo, ma è ovvio. Perché è normale che Catania deve essere visualizzata con l’elefante, chi lo sa? In realtà se vogliamo espandere, ci sono altri tipi di visualizzazione. Il processo che sta dietro alla realizzazione di una brand identity è sempre quello di rendere l’intelligenza visibile, non quello di disegnare il marchio, di scegliere i colori o i caratteri tipografici, ma quella di porsi delle domande giuste e dare una risposta di tipo visiva.

I simboli troppo moderni utilizzati non sposano quello che è il linguaggio e la serietà di un’istituzione storica, radicata nel territorio. È anche vero che ciò che è stato proposto non sostituisce il sigillo attuale dell’Università di Catania, ma lo accompagna per tutto quello che è l’utilizzo commerciale del brand dell’università. È per le magliette, di sicuro non va sulle tesi dei laureandi. Un segno grafico moderno non va sempre ricercato nella sintesi. La mia teoria in proposito è un po’ contorta: utilizzare l’elefante chiude in un provincialismo, racchiude in una Catania identificata da Piazza Duomo, non apre a quella città metropoli del Mediterraneo che Catania dovrebbe essere. Ecco perché secondo me chiudere in un simbolo, amato dai catanesi, non è la cosa migliore da fare. L’elefante va bene come elemento turistico della città, ma forse come ateneo racchiude i confini dell’università anziché espanderli.

Facebook è il luogo della provocazione, non si è seri. Ho fatto questa proposta nella quale si partiva dall’eliminare il sigillo aragonese per andare verso una nuova simbologia che possa rappresentare in maniera più chiara il legame reale tra Catania e il suo territorio: l’Etna in eruzione. Sostituiamo la fiamma dalla conoscenza con l’eruzione della conoscenza. Orrendo, non funziona, fatto in poco tempo… però andava a beccare un problema: in questo momento nel nostro sigillo c’è un qualcosa che è la nostra storia ma che non è più il Regno di Sicilia. Come possiamo trasformarlo e legarlo maggiormente a un territorio espandendo? Quindi nasce questo giochino stupido che sta nel trasformare il simbolo in qualcosa di commerciale – che poi possa essere declinato in vari modi – diventare iconico più astratto. Ovviamente parte dalla presenza geografica dell’Etna, alcuni potrebbero dire che è utilizzabile anche dall’Università di Messina o da Reggio Calabria, ma per vivere questo elemento hai bisogno di passare da un’area metropolitana. In più è un elemento che unisce, il Liotru è un qualcosa che amo e che mi tatuerei sul cuore, ma purtroppo nel concetto di espansione non ci si può puntare. Io parlo di Catania come area metropolitana. Io stupidamente dico di trasformare il Regno di Sicilia, che può anche non mettere d’accordo, in un elemento che sicuramente mette tutti d’accordo e usarlo come visione commerciale dell’Università di Catania, secondo me poteva essere un punto di partenza. Quello che ho visto è stato fatto da una delle agenzie migliori d’Italia, in qualche modo si vede che è mancato qualche ingranaggio nel sistema. Tutto è girato, ma sembra che non ci sia stata una reale voglia di cambiare ma semplicemente quello di mettere un po’ di make-up. Come sappiamo, il make-up quando ti addormenti ti rimane sul cuscino. Quindi pecca il poco dialogo tra la committenza e chi stava progettando. In fondo il design è questo: dialogo. Rendere l’intelligenza visibile lo si fa a volte dialogando, a volte osservando non la città odierna ma quella futura. Quando si guarda l’elefante stiamo guardando ancora il presente e non il futuro”.

Alessandra La Farina

F. R.

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